IL PRETORE
    Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale nei
 confronti di D'Amico Luigi imputato del  delitto  previsto  e  punito
 dagli  artt.  25,  282, 301 e 304 t.u. del d.P.R. 23 gennaio 1973, n.
 43.
    I. - LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE DEL 6 GIUGNO 1974,  N.
 164,   E   L'INTERPRETAZIONE   DELL'ART.  25,  SECONDO  COMMA,  DELLA
 COSTITUZIONE.
    La Corte costituzionale con sentenza del 6 giugno 1974, n. 164, ha
 dichiarato non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  20  della  legge  7 gennaio 1929, n. 4 (nella parte in cui
 prevede  che  le  disposizioni  penali  delle  leggi  finanziarie  si
 applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore,
 ancorche'  le  disposizioni  medesime  siano abrogate o modificate al
 tempo  della  loro  applicazione  in  relazione  all'art.   3   della
 Costituzione,  avendo  ritenuto  che la deroga apportata ai princi'pi
 comuni in tema di successione di leggi penali  non  crea  irrazionali
 disparita'  di  trattamento  fra  i  contravventori, essendo la norma
 ispirata alla tutela dell'interesse  primario  alla  riscossione  dei
 tributi  (che e' costituzionalmente differenziato ed esige una tutela
 particolare)  e   non   esistendo   alcun   ostacolo   di   carattere
 costituzionale  poiche'  l'art. 25, secondo comma, della Costituzione
 vieta  la  retroattivita'  della  legge  penale,  ma   non   concerne
 l'ultrattivita', che e' disciplinata dall'art. 2 del c.p.
    La  Corte  ha  quindi  aderito  a  quella  dottrina secondo cui la
 garanzia   costituzionale   investe   le   leggi   contenenti   nuove
 incriminazioni  (e  in  forza  di  una  interpretazione  letterale  e
 razionale dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione,  le  leggi
 modificatrici  in  peius  di  un'incriminazione  precedente) e non le
 leggi abrogatrici, la cui efficacia retroattiva, non  contenendo  ne'
 un  precetto  penalmente  sanzionato,  ne' una sanzione penale, senza
 essere ovviamente imposta, e' consentita tuttavia ai sensi  dell'art.
 75,  terzo  comma,  della  Costituzione (cfr. Padovani, Foro Italiano
 '75, parte I, pag. 30).
    Altra dottrina sostiene invece che il principio base che regola la
 successione  delle  leggi  e'  quello  del  favor  libertatis, di cui
 l'irretroattivita' e' uno dei corollari: il legislatore  costituente,
 come  risulta  anche  dai  lavori  preparatori,  avrebbe  inteso fare
 un'applicazione particolare del principio  sovraordinato  riguardante
 la  maggiore  tutela della liberta' del cittadino. Ne consegue che le
 norme che  contrastano  col  principio  di  irretroattivita',  ma  si
 ispirano  direttamente  al  favor  libertatis  non  solo  non sono in
 contrasto con la Costituzione, ma sono materialmente  costituzionali,
 in  quanto concernono i diritti fondamentali dei cittadini (Pagliaro,
 Enc. diritto, Voce Legge penale  nel  tempo,  pagg.  1064  e  segg.).
 Orbene,  se  si preferisce quest'ultima interpretazione dell'art. 25,
 secondo  comma,  della   Costituzione,   dovrebbe   concludersi   che
 "l'esistenza  di  un  fondamento astrattamente giustificativo qual e'
 l'interesse  fiscale  particolarmente  tutelato  dalla  Costituzione,
 assunto    dalla    Corte   quale   supporto   di   una   ragionevole
 differenziazione di trattamento tra autori di reati comuni ed  autori
 di  reati  tributari  rispetto alla retroattivita' della legge penale
 piu' favorevole, non avrebbe nessuna forza di resistenza, qualora  la
 questione  di legittimita' venisse impostata in rapporto all'art. 25,
 secondo  comma,  della  Costituzione  interpretato  secondo   l'ampia
 portata   della   quale  si  e'  detto"  (Bricola,  Commentario  alla
 Costituzione, pagg. 284-285).
    Si  pone  pero'  a  questo  punto  il   problema   se   la   Corte
 costituzionale,   la   cui  funzione  di  controllo  sulla  attivita'
 legislativa ha natura  giurisdizionale  e  deve  quindi  strettamente
 attenersi  alle  norme  che  assume  a  paradigma di controllo, possa
 adottare questa ultima interpretazione (cfr. sul  punto  cfr.  Cheli,
 Atto  politico  e  funzione di indirizzo politico, Milano, 1968, pag.
 100).
    Al  riguardo  va  osservato  che  l'interpretazione  delle   norme
 costituzionali e' condizionata dalla loro particolare natura, poiche'
 la Costituzione si raccoglie intorno ad un nucleo centrale costituito
 dai  principi che piu' direttamente esprimono quei valori politici in
 cui trova il suo fondamento.
    A  questi   ultimi,   quindi,   che   possono   essere   formulati
 espressamente  nel  testo  scritto  o  esservi  impliciti,  deve fare
 riferimento, ed in particolare non ai fini delle forze che in un dato
 momento sono depositarie del potere, bensi' a quelli che  appaiono  i
 motivi  essenziali  del  regime  politico,  come  si  sono  affermati
 storicamente e come si sono venuti  traducendo  sul  piano  giuridico
 (Pierandrei,  L'interpretazione della Costituzione, Studi in onore di
 Rossi, pagg. 496-497).
    Orbene, il problema dell'individuazione del  nucleo  dei  principi
 politici espressi dalla Costituzione e della loro rilevanza sul piano
 del diritto e' il problema della Costituzione materiale, problema che
 va  affrontato  alla  radice  se  si  vuol  far  chiarezza  su quello
 dell'interpretazione  costituzionale,   che   ha   una   fondamentale
 importanza per la soluzione della questione che qui interessa.
    II. - SUL CONCETTO DI COSTITUZIONE MATERIALE.
    La  formulazione  del  concetto  di  costituzione  materiale  trae
 origine dall'esigenza di ricercare  il  criterio  in  base  al  quale
 assicurare  l'unificazione del sistema giuridico (di ricondurre cioe'
 ad unita' di sistema il complesso delle norme),  non  potendo  questo
 trarsi  dalle  disposizioni inserite nel testo della costituzione che
 si presenta frammentario o  lacunoso  (Mortati,  La  Costituzione  in
 senso  materiale,  Milano  -  pagg.  83  e  segg.),  nonche' la causa
 dell'efficacia della  Costituzione  formale,  attesi  i  fenomeni  di
 effettivita'  che  si pongono spesso in contrasto con le disposizioni
 formali. Essa e' individuata in un  elemento  strumentale,  la  forza
 politica  (negli ordinamenti contemporanei il partito politico), e in
 un elemento materiale, lo scopo politico  che  reggono  l'ordinamento
 positivo, garantendone la "positivita'" o vigenza.
    Lo  scopo,  che deve essere cosi' rigido da porsi come punto fermo
 attraverso le oscillazioni dei rapporti  di  forza,  ma  anche  cosi'
 elastico   da   consentire  gli  adattamenti  richiesti,  e'  assunto
 attraverso una  norma  (la  norma  di  scopo)  nella  Costituzione  e
 predispone il contenuto delle disposizioni formali, ma opera anche in
 maniera immediata e diretta.
    Il  rapporto  tra Costituzione materiale e Costituzione formale e'
 normalmente di corrispondenza, nel  senso  che  la  seconda  tende  a
 rispecchiare   l'ordine   sottostante,  essendo  espressione  di  una
 situazione di equilibrio che tende a stabilizzare e a garantire.
    Variando pero' i rapporti di forza ed avendosi  un  contrasto  tra
 Costituzione  scritta e Costituzione materiale, prevale quest'ultima,
 essendo  l'unica,  per  essere  effettivamente  vigente,  cui   possa
 spettare  carattere  giuridico  (Mortati,  La  costituzione  in senso
 materiale, Milano 1940, pagg. 84 e segg.).
    Ne consegue pertanto che le disposizioni formali sono valide  solo
 e  nei limiti in cui non contrastanon con la norma contenuta nel fine
 fondamentale e che da parte degli organi dello Stato vi e' obbligo di
 applicare la norma che discende immediatamente  dal  fine  dominante,
 derogando alla legge formale e colmandone eventualmente le lacune.
    Questa  dottrina  ha  suscitato  notevoli  riserve  per  la natura
 garantista della Costituzione vigente, tanto che si e' prospettato il
 dubbio di una sua possibilita' di adattamento ad una  concezione  del
 potere  diversa da quella del tempo in cui la stessa fu formulata. La
 Costituzione  vigente  si  pone  infatti  come  limite   alle   forze
 dominanti, a garanzia dei singoli e delle minoranze e non puo' quindi
 basare su di esse la propria vigenza. Ne' tantomeno puo' l'interprete
 rifarsi, in deroga alla legge formale, al fine del partito dominante.
 D'altra  parte,  le norme di garanzia, per essere vigenti, dovrebbero
 costituire il nucleo della Costituzione materiale.
    Il  problema  viene  invero  superato  da  quella   dottrina   che
 concepisce  la norma di scopo come la risultante dei fini delle forze
 politiche presenti nell'ordinamento e  ritrova  nel  compromesso  tra
 queste  l'essenza del fenomeno costituzionale. Le norme di garanzia a
 tutela dei diritti  civili  e  politici  del  singolo  e  dei  gruppi
 (partiti e sindacati) che "istituzionalizzano" nei regimi democratici
 il  compromesso  non  sono  quindi altro che un logico sviluppo della
 Costituzione stessa, anzi la Costituzione tout-court, unitamente alle
 norme programmatiche che caratterizzano il regime.
    Essa viene definita come "quel  complesso  di  istituti  giuridici
 positivamente  validi ed operanti che realizzano un fine politico che
 e' la risultante  dei  diversi  fini  perseguiti  dalle  varie  forze
 politiche  in  lotta  fra  loro in un dato Paese e in un dato momento
 storico", sicche' sotto  questo  aspetto  puo'  dirsi  che  tutte  le
 Costituzioni  sono  frutto  di  compomesso. Mai accade infatti che il
 fine della forza dominante possa essere attuato  integralmente  senza
 interferenze  da  parte  delle  altre  forze politiche, o per lo meno
 senza  che  il  partito  dominante   ritenga   di   dovere   moderare
 tatticamente  o  strategicamente, le sue pretese, appunto per evitare
 le interferenze che sarebbero provocate dalle controspinte in  quella
 parte della pubblica opinione che segue un altro fine.
    A  questa dottrina puo' pero' muoversi l'obiezione che, se e' vero
 che entro  certi  limiti  il  partito  totalitario  e'  costretto  ad
 apportare  al  fine  politico  temperamenti  e  modificazioni, a tali
 temperamenti e modificazioni giunge unilateralmente e non  attraverso
 un  patto  o  un  compromesso  con le altre forze politiche, come del
 resto viene riconosciuto quando si afferma che  comunque  il  partito
 quanto  meno  deve  moderare  le sue pretese (Barile, La Costituzione
 come norma giuridica, pagg. 40-41).
    Del resto cio',  a  ben  vedere,  non  e'  negato  dalla  dottrina
 criticata,  quando sottolinea che lo scopo politico deve essere cosi'
 rigido da porsi come un punto fermo attraverso  le  oscillazioni  dei
 rapporti  di  forza,  ma  anche  cosi'  elastico  da  consentire  gli
 adattamenti richiesti: se infatti lo Stato  sorge  quando  una  forza
 politica  prevale  sulle altre, riuscendo ad imporre la propria forma
 di ordine (Mortati, La Costituzione cit., pag. 87)  e'  evidente  che
 non   sono   ammessi   compromessi  di  sorta  in  ordine  al  nucleo
 fondamentale dello scopo politico e che le oscillazioni dei  rapporti
 di  forza  non  possono  non  coincidere  con  le  maggiori  o minori
 interferenze delle forze politiche su cui e' prevalsa.
    Non sembra quindi che il compromesso sia di per  se'  un  elemento
 essenziale   della   Costituzione.   Di   compromesso  invece  e'  la
 Costituzione vigente per scelta delle forze politiche  costituenti  e
 le  norme  che  rivelano  tale  natura sono come e' stato esattamente
 rilevato "quelle che stanno a garanzia dei diritti civili e  politici
 dei singoli e dei gruppi perche' rappresentano i limiti posti (questi
 si'),  per  patto espresso, contro il fine per sua natura totalitario
 del partito dominante, qualunque tinta esso abbia, a  garanzia  della
 libera espressione ed attivita' delle forze di minoranza".
    Tali  norme  pero',  non  costituendo il compromesso l'essenza del
 fenomeno costituzionale, devono essere garantite e tale  garanzia  e'
 stata    raggiunta   attraverso   una   restaurazione   dello   stato
 parlamentare, cioe' attraverso una strutturazione  delle  istituzioni
 costituzionali  che trascende le singole forze politiche: alla caduta
 del fascismo i partiti si costituirono  in  Comitato  di  liberazione
 nazionale  ed  instaurarono la nuova forma di Stato. Segui' quindi la
 specificazione di funzioni e di poteri che  strutturo'  lo  Stato  in
 modo  da  attuare  il  fine  di  garantire  la pluralita' dei partiti
 (questi avrebbero ottenuto  in  libere  elezioni  una  rappresentanza
 proporzionale  al  consenso  e  il governo avrebbe dovuto ottenere la
 fiducia  del  Parlamento)  che,  in  seno  all'ordinamento  avrebbero
 assunto  la  veste  giuridica di associazioni private: non piu' forze
 politiche costituenti, ma forze politiche  soggette  all'ordinamento.
 Quanto   al   rapporto   tra   forze   di   instaurazione  ed  organi
 costituzionali dello Stato, la  forza  politica  delle  prime  si  e'
 trasferita  interamente  nei  secondi. I poteri costituiti sono stati
 cioe'  il  prodotto  della  trasformazione  del  potere   originario,
 attraverso  un  processo  ad  esso  interno:  il  C.L.N. si pose come
 l'organo  destinato  a  sostituire  provvisoriamente  le  camere e si
 attribui' il potere di designazione del governo della corona; indette
 le  elezioni,  il  Parlamento,  in  cui  le  forze  politiche  furono
 rappresentate  in  proporzione ai suffragi elettorali, prese il posto
 del C.L.N.
    Si e' avuta cosi' quella specificazione di poteri  e  di  funzioni
 cui  si  e'  sopra  accennato ed a cui si riferisce la dottrina della
 Costituzione materiale (lo Stato infatti sorge gia' quando  la  forza
 politica  si  afferma  in maniera costante in seno alla collettivita'
 anche al di fuori di una specificazione di funzioni e di poteri).
    I poteri costituiti quindi altro non  sono  che  il  necessario  e
 stabile  assetto che assume il potere originario dopo che e' prevalso
 sulle forze antagoniste e si e' posto come governo dello Stato.
    Il complesso degli organi costituzionali dello  Stato,  oltre  che
 una  specificazione delle funzioni statali sono uno strumento per far
 si' che il fine delle forze dominanti si  attui  nel  rispetto  delle
 garanzie costituzionali.
    Anche  in  questa  forma  di  Stato infatti il fine politico delle
 forze di maggioranza  pervade  le  funzioni  dello  Stato,  che  sono
 espressione  della  funzione  di indirizzo politico, ma esso non puo'
 operare in maniera immediata e diretta, bensi' attraverso il corretto
 funzionamento degli organi costituzionali, in particolare  attraverso
 le  deliberazioni  del  Parlamento.  Il sistema costituzionale appare
 cosi' alle forze politiche come limite  o  garanzia,  a  seconda  che
 siano di maggioranza o di minoranza.
    Consegue  da  quel  che  si  e'  detto  che  il dualismo tra forza
 politica ed organi dello Stato non ha carattere di necessita', ma  e'
 proprio  di  alcune  forme storiche di Stato totalitario ove la forza
 costituente, dopo aver espresso gli organi  dello  Stato,  a  seguito
 della  specificazione  di  funzioni e di poteri di cui si e' parlato,
 conserva una posizione di preminenza nell'ordinamento.
    III. - ISTITUZIONE E NORME.
    Chiarito il rapporto tra forze politiche ed organi  costituzionali
 dello  Stato  e  la diversa accezione del termine forza politica (che
 instaura lo Stato e che opera all'interno dell'ordinamento), resta da
 individuare il rapporto tra istituzione e  norma,  per  intendere  il
 quale  bisogna  rifarsi all'origine dello Stato parlamentare, essendo
 lo Stato dei partiti un'evoluzione di questo negli Stati ove  non  si
 e'  affermato un partito totalitario (come sara' meglio dimostrato in
 seguito) ed una restaurazione dello stesso ove un partito totalitario
 si e' invece affermato.
    A tal fine occorre individuare la forza politica che  vi  ha  dato
 origine.  La  dottrina della Costituzione materiale infatti individua
 con riguardo allo  Stato  moderno  le  forze  politiche  prima  nella
 monarchia  assoluta e poi nel partito, inteso come "associazione che,
 assumendo come propria una concezione generale comprensiva della vita
 dello Stato in tutti i suoi aspetti,  tende  a  tradurla  nell'azione
 statale  (Mortati,  La  Costituzione  cit., pagg. 84-85). Viene pero'
 cosi' saltata quella fase storica dello Stato parlamentare in  cui  i
 partiti,  sorti nel Parlamento, non erano ancora sorti nella societa'
 con tali caratteristiche.
    Orbene  la  forza  politica  che  ha  dato  origine   allo   Stato
 parlamentare,   il   cosiddetto   terzo  Stato,  aveva  la  sua  sede
 istituzionale nel Parlamento e fu  il  progressivo  affermarsi  della
 forza politica di quest'ultimo che ha portato ad una diversa forma di
 Stato:  dallo  Stato  assoluto  in  cui  tutti  i poteri di direzione
 politica  erano  concentrati  nel  sovrano,  si  passo'  allo   Stato
 costituzionale (in cui il potere del Re era in contrapposizione ad un
 altro  centro  di  unificazione,  il  popolo,  e  il  sovrano  poteva
 manifestare la propria fiducia ai ministri  anche  quando  la  camera
 elettiva fosse loro contraria e negare la propria sanzione alle leggi
 di iniziativa parlamentare) ed infine allo Stato parlamentare, quando
 il Parlamento prevalse definitivamente sulla Corona.
    Il  mutamento  della  forma  di Stato si spiega quindi, sulla base
 della teoria della costituzione materiale, con la prevalenza  di  una
 forza  politica,  il  Parlamento,  su  un'altra, la Corona, a seguito
 della quale si vennero a creare tra di  essi  dei  rapporti,  le  cui
 regole furono determinate dalla posizione di preminenza del primo.
    Tali  regole,  che son denominate convenzioni, non denotano quindi
 un accordo  formale,  ma  una  pratica  accettata  mediante  consenso
 tacito, sostanzialmente imposto dalla forza politica che e' prevalsa:
 il sovrano e' obbligato a scegliere come Primo ministro il leader del
 partito  che  ha  vinto  le  elezioni e a nominare i ministri da esso
 designati, a seguire le proposte del Gabinetto,  compresa  quella  di
 sciogliere  la camera dei comuni, a sanzionare le leggi approvate dal
 Parlamento e a convocare questo annualmente; il Governo e'  obbligato
 a  rispondere alla camera elettiva per cio' che attiene alla politica
 generale e a dimettersi o a chiedere lo scioglimento di tale  camera,
 se  questa  l'abbia  posto  in  minoranza  su una questione di grande
 rilievo (cfr. Treves, le convenzioni costituzionali, ENC.  Dir.  pag.
 524).
    L'ordinamento   costituzionale   inglese   rientra   quindi  nella
 categoria della "formazione consuetudinaria" di diritto pubblico;  e'
 cioe'  una struttura istituita senza la previa posizione di una norma
 che "la crei e la disciplini" e rispetto alla quale  la  consuetudine
 e' considerata come il complesso dei criteri secondo cui si svolge la
 sua  attivita'  (Orestano,  Dietro la consuetudine, pag. 528): regola
 dell'azione degli organi costituzionali, che deriva  dalla  struttura
 dell'ordinamento  costituzionale,  caratterizzato  dalla posizione di
 preminenza del Parlamento.  Essa  (la  regola)  e'  quindi  immanente
 all'istituzione:  regola "strutturale" del sistema parlamentare e' il
 rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo, dovendo l'attivita' del
 secondo essere sottoposta al  controllo  del  primo,  una  volta  che
 questo  e'  prevalso  sulla  corona;  regola "strutturale", derivante
 dalla struttura collegiale di  quest'organo  e'  anche  quella  sulla
 formazione  delle  leggi,  cioe'  la  regola della maggioranza, unica
 forma possibile di deliberazione di un organo collegiale, atteso  che
 la regola dell'unanimita' avrebbe un effetto paralizzante.
    Sulla  base  di  questa regola, all'interno del Parlamento si sono
 formati i partiti, rendendosi possibile  la  precostituzione  di  una
 maggioranza di parlamentari con un programma comune.
    Con la costituzione dei partiti come organizzazioni agenti in seno
 alla  societa'  che  elaborano  un  programma  da  tradurre sul piano
 giuridico-istituzionale si ebbe un  ulteriore  sviluppo  del  sistema
 parlamentare  in  quanto  il  partito  che ottiene la maggioranza dei
 seggi puo' tradurre in leggi il proprio programma.
    Il Parlamento e gli altri organi costituzionali non fondano dunque
 la  loro forza sui partiti, ma al contrario, la forza politica intesa
 come potere effettivo, ovvero come sovranita', appartiene agli organi
 costituzionali dello Stato; ed e' attraverso questi che i partiti che
 hanno avuto la maggioranza dei consensi del corpo elettorale  possono
 determinare  la  politica  nazionale:  il partito come organizzazione
 sociale e' "forza politica" che elabora un  piano  di  organizzazione
 della  societa',  ispirata a determinati valori; la trasposizione sul
 piano giuridico-istituzionale del  programma  avviene  attraverso  le
 regole   dell'attivita'   parlamentare,   espressione   questa  della
 sovranita' dello Stato.  La  forza  politica  e'  quindi,  a  livello
 istituzionale,  del  Parlamento ed assume come contenuto il programma
 delle forze di maggioranza.
    Viene  cosi'  ad  essere  verificato  il  rapporto  tra  le  forze
 politiche  ed  organi  dello Stato e risolto il problema del rapporto
 tra istituzione e norma.
    Dalla analisi che e' stata fatta della costituzione inglese, si e'
 visto infatti come essa rientri  nella  categoria  della  "formazione
 consuetudinaria", che puo' essere considerata come norma e struttura:
 la  struttura  crea  le  norme  per le singole componenti (gli organi
 costituzionali), queste trovano nella  struttura  la  necessita'  dei
 loro componenti.
    Tali  norme  possono  essere  espresse  o,  come  nel  caso  delle
 costituzioni consuetudinarie, inespresse.
    Pero', anche  nel  caso  in  cui  sono  espresse  in  proposizioni
 normative,  dal  sovrano  nelle  costituzioni  ottriate, o dal potere
 costituente, esse trovano la loro effettivita' nell'attualita'  delle
 strutture costituzionali e solo apparentemente sono espressione di un
 potere   ordinativo  (vedi  sopra  sulla  trasformazione  del  potere
 costituente nei poteri costituiti).  Bisogna  pero'  distinguere  tra
 norme inerenti alla istituzione (quelle che sono state definite norme
 strutturali  e  quelle  che  invece  ne  costituiscono  un  ulteriore
 sviluppo):  inerente,  ad  esempio,  alla  struttura  e'   la   norma
 fondamentale  che riguarda il rapporto di fiducia, espressa, o meglio
 "dichiarata", nella accezione che ne  da'  il  Romano,  all'art.  94,
 primo  comma,  della Costituzione, mentre le altre di cui all'art. 94
 regolano l'attivita' degli organi costituzionali  in  ordine  a  tale
 rapporto.    Sono   queste   le   norme   che   ruotano   nell'orbita
 dell'istituzione e del  suo  principio  normativo  (il  Mortati,  nel
 criticare  la teoria del Romano, ha rilevato che "il principio vitale
 di cui parla quest'ultimo, non potrebbe adempiere alla  sua  funzione
 di  tenere uniti i vari elementi da cui risulta, non potrebbe formare
 un sistema, se non fosse (esso  stesso  norma),  norma  senza  dubbio
 diversa  da  quella  disciplinante i comportamenti, ma purtuttavia ad
 esso analoga la funzione".
    IV. - ORDINAMENTO GENERALE E ORDINAMENTO CONSUETIDINARIO.
    La  concezione   istituzionale   si   adatta   quindi   all'ordine
 costituzionale,  ove  prevale  nettamente  l'organizzazione: le norme
 (del secondo tipo) sono  manifestazioni  tardive  e  sussidiarie  che
 possono mancare e la sanzione e' immanente all'ordinamento.
    Nelle  costituzioni  scritte, queste norme, che attuano i principi
 espressi dalle norme  fondamentali  che  sovrintendono  all'attivita'
 degli  organi costituzionali (e che non sono altro che l'attuazione e
 lo  sviluppo  degli  stessi),  costituiscono  propriamente  la  legge
 costituzionale   o   costituzione   formale.  Sotto  questo  aspetto,
 soprattutto   nelle   costituzioni   rigide   garantite,   tendono  a
 stabilizzare e garantire tali principi, come  precisato  dal  Mortati
 (vedi supra).
    Diversamente deve dirsi dell'ordinamento giuridico generale, cioe'
 l'organizzazione  sociale  in  cui  la  istituzione  consiste, che e'
 posta, come si e' visto dal potere dello Stato  attraverso  la  norma
 (vedi  supra  a  proposito  della forza politica che attua il proprio
 piano  di  organizzazione  della  societa'   attraverso   l'attivita'
 parlamentare).  Si  spiegano  cosi'  quelle  che  sono state definite
 "felici  ambiguita'"  nell'opera  del  Romano  che  lasciano  pensare
 all'ordinamento  come  a  qualcosa  di  gia' regolato e sembrerebbero
 contraddire che il diritto e' l'organizzazione sociale  materialmente
 intesa  (scopo del diritto e' l'organizzazione sociale, l'istituzione
 esiste e diviene tale in quanto e'  mantenuta  in  vita  dal  diritto
 (cfr.  Modugno,  Enc.  del  diritto,  Voce  Istituzione, pag. 92); le
 norme, da un lato sono  il  mezzo  di  cui  l'istituzione  si  serve,
 dall'altro  sono  manifestazioni  tardive  e  sussidiarie che vengono
 poste eventualmente dopo che l'istituzione si e' formata). Alla  base
 di tale ambiguita' e' la mancata distinzione tra ordinamento generale
 e ordinamento costituzionale; l'organizzazione, per quanto riguarda i
 rapporti  intersoggettivi,  e' attuata attraverso le norme e consiste
 in coordinazione e subordinazione di comportamenti, mentre a  livello
 costituzionale   le   norme   sono   espressione  dell'organizzazione
 costituzionale.
    Chiarita  l'immanenza  della  norma  nell'istituzione,  va   pero'
 rilevato   che   la   teoria  istituzionale  rispecchiava  anche  gli
 ordinamenti  arcaici,  che   consistono   anch'essi   in   formazioni
 consuetudinarie.  Se  infatti  si  intende la consuetudine come fatto
 normativo e se essa si distingue dal costume  perche'  e'  essenziale
 alla  Costituzione  ed alla conservazione del gruppo sociale (Bobbio,
 La consuetudine come fatto normativo,  Padana,  1942),  essa  non  e'
 altro che quel complesso di comportamenti necessari e quindi doverosi
 per  la Costituzione e la conservazione del gruppo sociale. E' questo
 il   carattere   essenziale   della   consuetudine,   che    consiste
 obiettivamente   in   una   ripetizione   costante   ed  uniforme  di
 comportamenti.
    La "giuridicita'" quindi, in questi ordinamenti si  trova  in  uno
 "stato diffuso ed inespresso", in una fase in cui il divieto vive nel
 concreto   storico  dell'ordinamento  e  viene  dichiarato  in  forma
 precettiva ad opera di giuristi ed esperti che prospettano in termini
 di  "dover-essere"  quanto  gia'  si  verifica  nel  concreto   delle
 istituzioni, venendo cosi' ad invertire per il futuro il rapporto tra
 istituzioni  e  norme. L'attivita' del giudice non attribuisce quindi
 valore giuridico, ne' tantomeno crea  le  formazioni  consuetudinarie
 (Orestano,  I  fatti  di  normazione nell'esperienza romana arcaica -
 Giappichelli 1962, pag. 149) e sara'  solo  in  un  secondo  momento,
 nelle fasi piu' avanzate della civilta', che da un potere autoritario
 (sul  cui  processo di formazione non ci si puo' soffermare in questa
 sede) verranno imposti determinati comportamenti per l'organizzazione
 di un corpo sociale piu' vasto, sia attraverso  atti  normativi,  sia
 attraverso  la  posizione di norme da parte dei giudici attraverso la
 risoluzione  di  controversie  che  modificano  l'originario  tessuto
 normativo.   L'osservanza,   sia   pure  non  piu'  spontanea,  e  la
 ripetizione uniforme e costante di tali comportamenti, non differisce
 quindi  fenomenologicamente  dalla  consuetudine  se non per il fatto
 che, invece di essere necessari, o meglio inerenti alla conservazione
 di una  societa'  naturale,  si'  da  identificarsi  con  essa,  sono
 necessari  alla conservazione di una societa' costituita da un potere
 autoritario. Ordinamenti consuetudinari e  non,  differiscono  quindi
 solo   per  dei  caratteri  secondari,  consistendo  fondamentalmente
 entrambi nella ripetizione  costante  ed  uniforme  di  comportamenti
 necessari alla conservazione del gruppo sociale.
    V.  -  SULL'INTERPRETAZIONE  DELLE  NORME  ORDINARIE E DELLE NORME
 COSTITUZIONALI.
    Le notazioni che precedono consentono di delineare  la  differenza
 tra   interpretazione   delle   norme   ordinarie   e   delle   norme
 costituzionali,  che   e'   condizionata   dalla   diversita'   degli
 ordinamenti  cui  appartengono: poiche' l'ordinamento generale, negli
 stati di legislazione, e' posto dalle norme scritte (la  consuetudine
 deve  essere  riconosciuta  dalla legge) solo attraverso di esse puo'
 essere  conosciuto.  L'interpretazione  quindi  dalle  singole  norme
 risale  ai  principi  piu'  generali e, determinati tali principi, si
 ridiscende alle norme, pervenendo cosi' ad una piena  conoscenza  del
 loro significato e della loro portata.
    L'ordinamento  costituzionale  invece non e' posto dalle norme, ma
 pone le norme. Ne consegue  che  una  interpretazione  che  tenga  in
 considerazione  solo  le  norme  espresse  e  costruisca l'unita' del
 sistema solo attraverso un processo di analisi e generalizzazione  di
 tali  norme,  come  ha  osservato il Mortati, incontra la difficolta'
 "derivante dal fatto che a volte, il testo o le  leggi  complementari
 si  presentano  frammentari  o  lacunosi, si' che da essi non e' dato
 desumere la disciplina di materia che  dovrebbe  esservi  inclusa,  o
 comunque  il  criterio  capace  di ricondurre ad unita' di sistema il
 complesso delle norme" (La Costituzione, cit. pagg. 27-28).
    Essa non e' quindi idonea, di per se' sola,  a  pervenire  ad  una
 precisa  conoscenza  dell'ordinamento  e  del pieno significato della
 portata delle singole norme.
    A tal fine bisogna risalire al significato  intrinseco  del  fatto
 normativo, in cui la Costituzione consiste.
    Ne  consegue che i risultati dell'interpretazione condotta secondo
 i criteri di cui  all'art.  12  delle  disposizioni  sulla  legge  in
 generale devono essere riferiti a quello che e' stato appena definito
 il  significato  del  fatto normativo costituzionale e verificare che
 siano uno sviluppo ed una esplicitazione di  questo,  perche'  questo
 e',  come si e' visto, il rapporto tra "formazione consuetudinaria" e
 norma.
    Orbene, il significato intrinseco e'  rivelato  dai  fini  che  la
 trasformazione   della  forma  di  Stato  (da  monarchia  assoluta  a
 parlamentare) ha inteso realizzare e  garantire,  per  comprendere  i
 quali occorre brevemente delineare la struttura dello Stato assoluto.
 Questo  sorse quando la monarchia si pose come centro di unificazione
 della societa' medievale, costituendosi come "punto  di  rannodamento
 di  tutti i comuni e delle loro forze politiche con l'annetterli agli
 stati generali" (ponendosi a capo della  gerarchia  feudale)  (Mosca,
 Teoria  dei  governi  e Stato parlamentare, Milano, pag. 95). Cio' ha
 comportato l'esercizio di poteri sovrani per  l'organizzazione  della
 societa'  su  base  nazionale  e  la  conseguente  limitazione  della
 liberta'     dei      cittadini,      giustificata      dall'esigenza
 dell'organizzazione statale.
    Tali  limitazioni  della  liberta' non erano pero' strettamente in
 funzione delle necessita' organizzative dello Stato, provenendo da un
 centro di potere che, pur  avendo  determinato  la  formazione  della
 societa'  civile  su base nazionale, non ne era diretta espressione e
 risentiva dell'influenza dei ceti legati ai privilegi feudali. Quando
 il Parlamento, che rappresentava il terzo Stato, si pose  come  forza
 politica,   il   potere   politico   assunse   il   carattere   della
 rappresentativita': gli organi dello Stato furono  cioe'  espressione
 della societa' civile.
    Cio'  pero'  non  significa  che  il  potere  politico divenne una
 estrinsecazione  dell'istituzione  statale,  reggendosi  questa,   al
 contrario, sul potere statale, come chiarito in precedenza, ma che il
 governo  deve  avere  la fiducia del Parlamento, cui e' attribuita la
 rappresentanza degli interessi generali.
    La  funzione  del  Parlamento  e'  quindi  soprattutto  quella  di
 determinare  la  misura  dell'imposizione  fiscale  in  ragione delle
 effettive esigenze dello Stato e  di  inviduare  quali  comportamenti
 siano contrari all'interesse generale in misura talmente rilevante da
 porre  in  pericolo  la conservazione ed il progresso della societa',
 si' da rendere necessaria la privazione della liberta', cioe' di quel
 bene fondamentale alla cui tutela e' in ultima analisi predisposta la
 Costituzione.
    VI.   -   IL   SIGNIFICATO   DEL   PRINCIPIO   DI   LEGALITA'    E
 L'INTERPRETAZIONE DELL'ART. 25, SECONDO COMMA, DELLA COSTITUZIONE.
    Dalle    superiori    considerazioni   derivano   due   importanti
 conseguenze:  l'esatto   contenuto   del   principio   di   legalita'
 (privazione  della  liberta'  personale in forza di un atto normativo
 emanato dall'organo che rappresenta gli interessi  generali),  ed  il
 suo   valore  normativo.  Cio'  e'  stato  possibile  attraverso  una
 revisione critica del concetto di Costituzione materiale che,  da  un
 lato  ha  fatto venir meno le preoccupazioni della dottrina in ordine
 al riferimento ai fini delle forze depositarie del potere in un  dato
 momento   storico,   necessariamente   contingenti;   dall'altro   ha
 consentito l'esatta individuazione e  l'attribuzione  del  valore  di
 norma  a  quei  motivi  essenziali  del  regime  politico  (superando
 l'obiezione rivolta a Mortati (Guarino,  I  decreti  luogotenenziali.
 Sulla normativita' della Costituzione materiale, Foro it., 1947,
 pag.  118),  secondo cui "la volonta' delle forze politiche dominanti
 (concetto da precisare) in tanto ha un rilievo effet
 tivo, in quanto riesce a  tradursi  in  norme  appartenenti  a  fonti
 formali  o  si  impone  di  fatto";  e  fornendo  il  criterio da cui
 scaturisce la sostanziale omogeneita' fra i due fatti  normativi,  la
 cui  determinazione  si  e' resa necessaria al fine di evitare che "i
 tentativi di identificare la  materia  costituzionale  suscitino  una
 impressione  di  arbitrarieta' non essendo diretti da criteri forniti
 di validita' generale .. ed (appaiano) inconsapevolmente  ispirati  a
 quei  presupposti  ideologici  e politici, che pure teoricamente sono
 proclamati  irrilevanti  nel  mondo   del   diritto"   (Mortati,   La
 Costituzione, citata pagg. 27-28).
    Possiamo  dunque  concludere  che il principio di legalita' e' uno
 dei cardini dello Stato parlamentare ed  uno  dei  principi  basilari
 della      Costituzione,      e'      connaturato      allo     Stato
 democratico-parlamentare.
    Il    riferimento   ad   esso   e'   quindi   indispensabile   per
 l'interpretazione della disposizione costituzionale di  cui  all'art.
 25,  secondo comma, della Costituzione. L'interpretazione della norma
 sulla base dei criteri di cui all'art. 12  delle  disposizioni  sulla
 legge in generale porta come si e' visto al risultato di estendere la
 portata  della  norma  solo  alle  leggi  modificatrici  in  peius di
 un'incriminazione precedente.
    Se si  tiene  pero'  presente  il  significato  del  principio  di
 legalita',  puo'  ravvisarsi  un espresso richiamo ad esso in seno al
 precetto che l'art. 25, secondo comma, rivolge all'organo giudicante,
 il cui valore  trascende  quello  di  premessa  al  precetto  stesso:
 nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge (il fatto che
 le  norme  penali  possano  essere  contenute  in  decreti-legge o in
 decreti legislativi non contraddice al detto  principio,  trattandosi
 di  atti  aventi  forza  di legge, soggetti al controllo preventivo o
 successivo  del  Parlamento).  Il  riferimento  al  significato   del
 principio  di  legalita'  si ritrova quindi nella stessa formulazione
 letterale dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione: se infatti
 nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che  non  sia
 entrata  in  vigore  prima  del fatto commesso, ne deriva che nessuno
 puo' essere punito se non in forza di una legge e questo, come si  e'
 visto,  e' il significato del principio di legalita'. Ne consegue che
 la norma puo' essere espressa nel seguente modo: nessuno puo'  essere
 punito  se non in forza di una legge; la legge deve essere entrata in
 vigore prima del fatto commesso.
    Quest'ultima considerazione e' di fondamentale importanza  per  la
 natura  giurisdizionale del controllo operato dalla Corte sulle leggi
 poiche' l'interpretazione deve seguire i criteri di cui  all'art.  12
 delle preleggi, muovendo dall'interpretazione letterale e giungendo a
 risultati  che  non contraddicano al principio di legalita'. In altri
 termini, se la legge costituzionale e' l'esplicazione, lo sviluppo  e
 l'attuazione    dei    principi    costituzionali,    il    risultato
 dell'interpretazione della prima  non  puo'  contraddire  i  secondi,
 sicche'  tra  le varie interpretazioni possibili deve essere adottata
 quella conforme ai principi stessi.
    VII. - PRINCIPI DI LEGALITA' E PRINCIPIO DELLA NON ULTRATTIVITA'.
    Il problema che adesso si pone e' se il  cosiddetto  principio  di
 non  ultrattivita'  sia  logicamente  e  letteralmente  compreso  nel
 principio di legalita'. A tale quesito va data risposta  positiva  in
 quanto,  fondandosi  la  legittimazione della potesta' punitiva sulla
 valutazione del Parlamento intorno  alla  particolare  rilevanza  che
 assume la lesione di interessi generali in conseguenza di determinati
 fatti,  quando  tale particolare rilevanza non sia piu' riconosciuta,
 la potesta' non ha piu' legittimazione, sicche' cessano  l'esecuzione
 e gli effetti penali della condanna e non puo' essere emessa sentenza
 di  condanna anche se i fatti sono stati commessi quando la legge era
 in vigore.
    Chiarito il principio sottostante alla norma, risulta evidente  il
 completo  significato  della  stessa,  che  comprende  anche  la  non
 ultrattivita': se nessuno puo' essere punito se non in forza  di  una
 legge,  nessuno  puo'  essere  punito  se  la legge non e' in vigore,
 indipendentemente dal fatto che sia stata  abrogata  o  non  sia  mai
 esistita.
    Il  principio  della  non  ultrattivita'  e'  dunque intrinseco al
 principio di legalita'. La ragione per cui il legislatore costituente
 ha reso esplicito  solo  il  principio  dell'irretroattivita'  appare
 evidente  se  si  considera  che in caso contrario il giudice, cui e'
 fatto obbligo  di  applicare  la  legge  in  vigore,  avrebbe  dovuto
 conseguentemente  irrogare  la  sanzione  penale  nei  confronti  del
 cittadino per un fatto commesso prima dell'entrata  in  vigore  della
 legge  stessa.  Tale  obbligo quindi, che non esiste per la legge mai
 emanata od abrogata, andava espressamente escluso.
    VIII. - ESCLUSIONE DEL CARATTERE "CONTINGENTE" DELLE LEGGI PENALI.
    Le leggi penali  finanziarie  d'altra  parte  non  possono  essere
 considerate   "leggi   contingenti"  equiparabili  sotto  il  profilo
 dell'efficacia nel tempo alla leggi  eccezionali  (ne'  la  Corte  ha
 argomentato  in tal senso nella citata sentenza), perche' legate alle
 mutevoli  esigenze  fiscali  dello  Stato  e   destinate   quindi   a
 modificarsi  frequentemente  nel tempo in quanto tutte le leggi dello
 Stato hanno tali caratteristiche "(sorgendo) sempre in  occasione  di
 una  data  necessita'  sociale  da  tutelare (durando) finche' questa
 necessita'  esista  e  (cessando)  per  abrogazione   quando   questa
 scompare". (App. Bari 13 agosto 1925, Foro It., 1926 II, 77).
    Orbene, tale caratteristica nelle leggi penali e' forse ancor piu'
 evidente  se  si  considera  che vengono emanate quando il Parlamento
 ritiene particolarmente lesivi  dell'interesse  generale  determinati
 comportamenti, sicche' la sanzione penale e' legata a due condizioni:
 la lesione dell'interesse generale e la valutazione della particolare
 rilevanza  della  stessa  parte  dello  Stato,  anche se l'intrinseca
 natura antisociale di molti fatti,  rende  obbligata  la  scelta  del
 Parlamento.
    IX.  -  NON  MANIFESTA INFONDATEZZA E RILEVANZA DELLA QUESTIONE DI
 LEGITTIMITA' COSTITUZIONALE DELL'ART. 20 DELLA  LEGGE  N.  4/1929  IN
 RELAZIONE ALL'ART. 25, SECONDO COMMA, DELLA COSTITUZIONE.
    Per  le  superiori  considerazioni  la  questione  di legittimita'
 costituzionale dell'art. 20 della legge 7 gennaio 1929, n.  4,  nella
 parte  in  cui  prevede  che  le  disposizioni  penali delle leggi si
 applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore,
 ancorche' le disposizioni medesime siano  abrogate  o  modificate  al
 tempo  della  loro  applicazione,  in  relazione all'art. 25, secondo
 comma, della Costituzione interpretato alla luce  dei  criteri  sopra
 richiamati, non appare manifestamente infondata.
    La  questione  e'  altresi'  rilevante in quanto, essendo stata in
 esito al dibattimento raggiunta la prova che l'imputato  ha  commesso
 il fatto (contrabbando di kg 1,14 di tabacchi lavorati esteri in data
 24  novembre  1992)  ai  sensi  dell'art.  20  della  predetta legge,
 dovrebbe applicarsi la sanzione della multa  prevista  dall'art.  282
 del  d.P.R.  23  gennaio  1973, n. 43, pur essendo quest'ultimo stato
 modificato dalla legge 28 dicembre 1993, n. 562, che non prevede piu'
 come reato le  violazioni  finanziarie  punite  con  la  sola  multa,
 nonche' dalla legge 18 gennaio 1994, n. 50, che prevede come reato il
 contrabbando  di tabacco lavorato estero in quantita' superiore ai kg
 15.
    Non puo' infatti condividersi l'argomento secondo  cui,  essendosi
 venuta  a  determinare una coincidenza tra l'area di depenalizzazione
 dei reati finanziari e quella stabilita dai reati di diversa  natura,
 l'art. 39 abbia perso il suo carattere di specialita' per abrogazione
 implicita  dell'inciso  contenuto  nell'ultima  parte del primo comma
 dell'art.  32  (Sent.  App.  Milano  17  febbraio-3  marzo  1994  nei
 confronti  di Galli Livio + 1), in quanto la modifica, riferendosi ad
 una norma speciale,  conferma  la  scelta  del  legislatore  dell'81,
 estendendone la sfera di applicazione.
    Quanto  all'applicabilita'  dell'art.  20  della  legge n. 4/1929,
 esclusa dal pretore di Milano  nella  sentenza  appresso  citata,  va
 preliminarmente  osservato che tale legge detta le norme generali per
 la repressione delle leggi finanziarie  e  che  pertanto  tali  norme
 hanno  carattere  generale  nell'ambito del sottosistema di cui fanno
 parte. Ne consegue che le norme di cui  alla  predetta  legge  devono
 essere espressamente derogate da leggi posteriori.
    Orbene,  la  legge  n.  689/1981  all'art. 39 non solo non apporta
 deroghe espresse alla legge n. 4/1929, ma prevede che alle violazioni
 previste nel primo comma "si applichino le disposizioni della legge 7
 gennaio 1929,  n.  4,  e  successive  modificazioni,  salvo  che  sia
 espressamente  disposto da leggi speciali, prevedendo solo una deroga
 all'art. 15 della legge citata".
    La disposizione di cui all'art. 39 e' quindi legge speciale  anche
 rispetto  all'art. 40 (Contra, pretore Milano, sent. 24 febbraio 1994
 nei confronti di Mosters Sebastiano).  In  ogni  caso  la  disciplina
 transitoria  di cui agli artt. 40 e segg. della legge n. 689/1981 non
 puo' che riferirsi ai procedimenti  penali  in  corso  alla  data  di
 entrata  in  vigore  della  predetta legge, tant'e' che la successiva
 legge 31 dicembre 1993, n. 561, ha dettato una norma transitoria, sia
 pure di contenuto identico a quello di cui all'art. 40 della predetta
 legge, rinviando  a  quest'ultima  solo  in  ordine  alla  disciplina
 transitoria  per  quanto non espressamente previsto. Ne consegue che,
 non prevedendo l'art. 2 della legge  n.  562/1993  alcuna  disciplina
 transitoria,   e   dovendosi   ritenere  depenalizzato  il  reato  di
 contrabbando (al riguardo va pure considerato, come si  e'  accennato
 sopra, che l'art. 2 della legge 18 gennaio 1994, n. 50, presuppone la
 depenalizzazione  del  reato  di  contrabbando  di  tabacchi lavorati
 esteri per quantita' inferiori a kg 15, prevedendo la reclusione  per
 quantita'  superiori  ferme  restando  le  sanzioni  (ovviamente  non
 penali) di cui al d.P.R. n. 43/1973)  andrebbe  applicato  l'art.  20
 della legge n. 4/1929).